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Il viaggio inizia nella caverna.

PRIMO

Seguo la voce.

Arrivano gli intrusi. Disturbano nel seguire la voce. Pensieri ed immagini che si presentano. Non hanno niente a che fare con la realtà. Disturbano assai. Per esempio la caverna: si presenta la caverna di un sogno, una volta un sogno ricorrente.

E’ bellissima. Enorme. E altissima. Non ne vedo la fine. Comunica con il mare, là fuori. Dentro c’è una distesa d’acqua, avrà la forma di un lago, qui, anche se l’orizzonte scompare lontano, da qualche parte oltre il mio sguardo. L’acqua è trasparente e calma. In superficie riflette la luce. E’ turchese, deve esserci un fondo sabbioso. Non si capisce da dove arriva la luce, ma è bellissimo ed accogliente, qui. Ci arrivai in una giornata di catastrofe naturale. Enorme. Una specie di fine del mondo. C’era un vento fortissimo che sollevava onde gigantesche. Molte persone si buttavano dalla spiaggia nel mare, nel tentativo di salvarsi. Altre, ignare del pericolo, rimanevano dove stavano, chiacchierando e continuando a banchettare sulla spiaggia. Non volevano sentire nulla, nonostante si capiva benissimo che stava per arrivare qualcosa di terribile. Forse proprio la fine del mondo. Una volta nell’acqua vidi che le onde, enormi, che si frangevano contro le rocce, altissime. Nuotavo senza fatica, o meglio, mi facevo portare avanti e indietro dalle onde. Era bello, bellissimo. Avrei voluto rimanere così per sempre. Poi mi accorsi che potevo finire sbattuta sulle rocce, da quella forza immensa. Forza terribile. E ineluttabile. E bellissima, anche. Sapevo che se non avessi raccolto tutto il mio coraggio, sarebbe senz’altro finita così. Ero troppo vicina a quelle enormi pareti rocciose investite dal mare con una violenza inaudita. Allora mi riempii i polmoni con molti respiri, uno dietro all’altro in sequenza, i più profondi che potevo, in modo da avere il corpo più ossigenato possibile, poi trattenni il respiro, m’immersi e nuotai attraverso quel tunnel. L’uomo con cui sono entrata nel mare mi indicava dove passare. Lo seguii. L’ingresso era sotto la superficie, quel tanto da riuscire ad entrare in immersione, nonostante le onde che frangevano sopra, spaventosamente e pericolosamente. Quando mi mancò l’ossigeno non potevo più tornare indietro. Mi ero inoltrata troppo dentro il tunnel. Così continuai a nuotare, nonostante il dolore, fortissimo, provocato dalla terribile impellenza di respirare di ogni mia cellula, e impossibilità di farlo. Al peggio sarei morta così, nel tentativo di salvarmi. Non male, come morte. Per quando le modalità orribili. E dolorose.

Ce la feci per un miracolo.

Nella caverna c’era tanta gente. I sopravvissuti. Tutti bagnati. Spossati. E felici. Un’atmosfera di infinita gratitudine che accomunava tutti riempiva la caverna di una forte commozione.

Non era un incubo. Per me era un bel sogno. Mi piaceva quando si presentava. Mi piaceva sognarlo.

Le intrusioni così distraggono. Disturbano. Rompono le scatole. Rompono nel mentre cerco di seguire la voce. Per dirla tutta disturbano anche quando faccio qualche altra cosa. Perché tendo a contemplarle. Perché è piacevole, contemplarle. In questo modo, però, disturbano, impedendo che la mia attenzione vada dove voglio io. A concentrarmi su quello che decido io. O a contemplare quello che voglio io. Penso ad altro. Quindi è come se non ci fossi. Sto nei pensieri.

Nei pensieri intrusi.

Secondo il test in qualcuno di quei libri divertentissimi ed istruttivi del Professore sarei una stronza. Una stronza perfetta. Cioè adulta. Però. Mai avrei pensato di chiedere aiuto, o rassicurazioni, o dritte. Se fossi un’adulta davvero.

Beh, dritte forse sì. Se qualcuno chiede qualcosa, vi è un ventaglio infinito, di modi per declinare. Non è obbligatorio dire di sì. Non mi sento una stronza se chiedo una dritta. Come hai fatto, quella cosa li? O, qualche volta, anche l’aiuto. Se penso sia necessario. Dopo avere provato da me. E valutato, con attenzione, se è davvero così.

Non è facile relazionarsi correttamente. Ma è necessario, relazionarsi. Relazionarsi correttamente.

Ho visto che le persone, se ricevono un piacere, tendono a restituirlo, quando se ne presenta l’occasione. Almeno quello. Se non è possibile al mittente, allora al mondo. Almeno alcune. Che vi è una specie di ragnatela che in qualche modo ci collega tutti.

Qualche volta l’ho vista, quella ragnatela. In un sogno. Di giorno. Ad occhi aperti. Brilla sottilmente. Un po’ come quelle ragnatele sulle piante, se osservate di mattina, nel momento in cui sorge il sole, quando i raggi mattutini mettono in chiaro per un breve istante il loro disegno elaborato, la loro bellezza delicata, sottile e fragile.

In fondo la famosa teoria di sei gradi di separazione postula rozzamente più o meno la stessa cosa.

Persino gli alberi si parlano dove noi umani non lo vediamo. Sottoterra. Tramite le micorrize. Cioè tramite una specie di ragnatela sotterranea. Forniscono nutrimento. Ricevono nutrimento. Rifiutano nutrimento, anche. L’ha scoperto Susanne Simard negli anni ’90. Ci scrisse anche un bel libro, su come ci arrivò. Anche di come si prese il cancro per essersi esposta alla radioattività, per un incidente. Cancro di cui guarì.

C’è di più. Far piacere al prossimo, quando se ne presenta l’occasione, è bello. Anche quando non c’è niente da restituire. Nè da guadagnare. Anche a degli perfetti sconosciuti. Umani. O anche non. Se si guarda bene, ve ne sono prove tutto intorno. Ovunque. Tranne che nelle news. Infatti. Infatti vale anche il contrario. Anche di questo, ve ne sono prove tutto intorno. Specialmente nelle news.

Oddio che sega mentale. A che pro?

Mi sembra una lagna, oltreché una sega mentale.

Immagino queste intrusioni scompaiono da sole.

Come un respiro che finisce, ad un certo punto.

Ma poi ne segue un’altro, di respiro.

Infatti.

Seguendo le intrusioni seguo. Seguo loro.

Appunto.

Non vado. Non vado dove dice la voce.

Appunto.

Tuttavia. Mi sembra che un pochino aiutino, le intrusioni.

Anche se non so bene che a cosa esattamente, tantomeno in che modo.

Si naviga a vista.

Inutile colpevolizzarsi.

Se abbiamo un cervello che funziona così, cioè una specie di capo che si fa le seghe mentali da solo, ci deve essere anche una qualche ragione positiva. Il lato buono della legge delle seghe mentali. Il Professore dice brevemente più o meno la stessa cosa, da qualche parte.

Ad osservare bene, per esempio i gatti si autopuliscono, in virtù della loro natura. E’ in questo modo che possono disporre di un mantello, tra l’altro bellissimo, che funge da protezione quattro stagioni. E così via, fanno tante altre cose. Cose gattesche. Come noi, facciamo tante cose. Cose umanesche.

Il linguaggio di conseguenza. Il loro, così come il nostro. Anche se tra noi umani a volte è usato per far danni. Fuori di noi, ed anche dentro di noi. Tuttavia. Grazie al linguaggio ci siamo evoluti in modo da mettere in atto le società chiamate moderne. Solo grazie alla capacità di comunicare, tra di noi. Yuval Noah Harari descrive bene com’è andata. La struttura del nostro linguaggio è binaria, riflette esattamente il modo in cui ci siamo evoluti: a forza di prova ed errore. E’ la stessa struttura base del linguaggio dei computer. Zero - uno.

Solo che lì, lì in mezzo, in mezzo tra quella prova ed errore sembra che che sfuggano tante cose. Cose importanti.

Iain McGilchrist dice che è l’emisfero sinistro del nostro cervello che prende il sopravvento, da un bel po’ di tempo da questa parte. Secondo lui è l’emisfero sinistro che ha prodotto quel risultato Noah Harari descrive così bene, nella sua genesi storica. E’ lui, quello che ci ha portato qui, nel bene e nel male. Il bene lo sappiamo più o meno tutti, dalla nostra parte del mondo. Il male … lo sappiamo tutti, dappertutto.

Ma noi abbiamo anche l’emisfero destro.

Evidentemente è usato poco. A parte le eccezioni chiamate le Beatiful Mind. I sognatori, appunto.

Ma non siamo forse equipaggiati sia con emisfero sinistro che con quello destro tutti quanti?

Di serie, per giunta?

Accipicchia che sega mentale.

Oltretutto queste seghe mentali hanno aria di scuse.

O dei sensi di colpa. Perché mai?

Vietato mettere ordine?

Vietato sognare?

E’ vero, però, che così perdo un sacco di tempo.

La vista dalle cime delle montagne è sempre meravigliosa. E’ da lì che si percepisce quanto è vasto e maestoso, ed anche infinito, in un certo senso, il mondo. Potrebbe sembrare anche terribile, e minaccioso, con quelle rocce spoglie e ripide ed inospitali a perdita d’occhio, ma non è così, è solo un’impressione, è solo perché si sta così in alto. Lassù c’è una pace speciale. A volte anche un silenzio speciale. La sensazione è bellissima, pervade tutto il corpo. Con quell’aria speciale.. Ovvio, c’è meno ossigeno, è ovvio che lo percepiamo. Con quella luce speciale.. ma forse è solo la neve che riflette la luce del cielo. O, forse, semplicemente, lì c’è n’è troppo, di cielo. Così tanto che non si può non rimanerne sgomenti. E poi quel silenzio ovattato, se non c’è il vento ma la neve sì, quando si scende giù a valle.

Il gruppo del pronto soccorso alpino mi prendeva con sé, a volte, non ero un peso, quando andava nei posti non frequentati dagli uomini, per le dovute ricognizioni. Però smisi, pian piano. Una volta s’aprì una specie di voragine, dentro alla nostra catena di sciatori, nel mentre tornavamo. Sono riuscita a saltare, all’ultimo. La persona dietro di me era super esperta, chiudeva la catena. Chissà quante ne aveva vedute, di cose così. Un’altra volta ebbi una specie di dubbio, situato nello stomaco, di non riuscire ad entrare in un passaggio largo circa un metro all’interno di krummholz che serpeggiava tutto intorno, a perdita d’occhio. Scendevamo sempre alla maniera di gran slalom. Alla velocità di gran slalom. C’era del nevischio in aria, quel giorno. Vidi quanto fosse stretto quel passaggio così tardi, che dovetti concentrarmi totalmente, con ogni cellula del mio corpo, a gestire minuziosamente ogni grammo del mio peso, per riuscire ad entrare in quello stretto corridoio nella vegetazione bassa e legnosa, a quella velocità. Erano dei segni. Pian piano smisi di fare fuoripista.

Cioè, con loro. Ovvio, anche senza di loro. Non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di andare in giro non in compagnia di persone autorizzate, profonde conoscitrici delle dinamiche del luogo, in alta montagna, con la neve, sugli sci. Non volevo causare una slavina dove rimanerci. Né che possa rimanerci qualcun altro. Non esiste proprio.

Ho cambiato l’immagine della mia montagna.

Ora c’è la vista dall’Everest. E’ bellissima. Ovviamente.

Ogni qual volta ci poso gli occhi - per qualche motivo succede tutti i giorni - mi ricordo di essere in buona compagnia.

E’ una bella sensazione.

Comincio a rendermi conto che convivo con una specie di malessere.

Che è diventato più forte. Pericolosamente forte. E stava diventando sempre più forte. E’ in questo modo che cominciai a rendermene conto, non tanto tempo fa. Strano, un po’ tardi. Comunque, meglio tardi che mai.

Un malessere sottile. Ognipervasivo. Che paralizza. Ogni qual volta devo, o voglio far qualcosa di buono per me. Quando devo, o voglio far qualcosa in generale, o per gli altri, invece no. Perlomeno, non in maniera così paralizzante. Magari mi trascino, dentro, ma comunque faccio, fuori. Bene, a volte molto bene. Pur trascinandomi dentro. Ondeggiando un po’ di qua, e un po’ di là.

Un po’ come tutti, immagino.

Realizzo che ci lotto praticamente da sempre. Da quando mi ricordo.

Un po’ strano che mi rendo conto di una cosa così, così tardi.

Forse perché ci convivo da sempre. E’ familiare. E’ normale. E’ sempre stato così.

Solo che da un po’ stava diventando debilitante come non mai, e questo sì che non è normale.

Ho cominciato a fare un po’ meno. Poi lo stretto necessario. Poi rimandare alcune cose. Tanto si può, sono sciocchezze, ci vuole giusto muovere il mignolo. Cioè cose facili, per cui non serve un gran impegno. Il mignolo che però non muovevo.

Quindi cominciarono ad accumularsi, le sciocchezze. Poi anche le meno sciocchezze. Fa niente, me la cavo. So benissimo che me la cavo, me la cavo sempre.

E’ quell’andazzo. E’ questo andazzo che non va bene, non va bene per niente.

Realizzai che bisognava far qualcosa. Qualcosa di nuovo, di diverso. Quello di fino-ad-adesso non bastava. O non funzionava più. O è diventato persino controproducente.

Ahi questo suona come una scusa.

O come un brutto sogno.

Soffrivo gli incubi. Chi non ne ha mai avuto qualcuno.

All’età di sei anni ricevetti le chiavi di casa, da appendere al collo. Era il primo giorno di scuola. La mamma controllava dal balcone che attraversassi la strada come si deve, facendomi ciao ciao con la mano. Vi passava giusto il filobus, raramente qualche macchina. Dall’altra parte della via mi girai, continuando a camminare, e feci ciao ciao con la mano anch’io. Così non guardai bene dove mettevo i piedi, e presi in faccia un palo di luce. La faccia un po’ girata di lato, ovviamente. Che botta, però. Me la ricordo ancora.

Nelle notti sognavo che tornavo a casa, la via era quella dove abitavo, ma non c’era il mio palazzo. Oppure c’era il mio palazzo, era proprio lui, ma mancava la parte dove abitavo. Cose così. Terrificanti, per una bambina. Ma l’incubo che mi perseguitò per quasi venti anni era un po’ diverso. Infatti durò.

Era semplice, sempre uguale, e nello stesso momento sempre diverso, come tutti gli incubi ricorrenti. Io, bambina, stavo nuda tra la gente. Ero sola. Sapevo di non avere nessuno al mondo, proprio nessuno. Poi tutte situazioni normali, tranquille. Tutti mi trattavano normalmente, con gentilezza. I grandi. I bambini volevano giocare con me. Tutto normale, come se non fossi nuda. Ma io invece lo ero, ero nuda. Senza la protezione dei vestiti. Sola. E piccola. Nessuna persona piccola come me era sola. Una sensazione orribile. Un incubo orribile. Scomparve da solo.

E’ bello respirare ponendo attenzione al respiro. Tanto quanto contemplare quella coda di volpe là, per esempio. E’ di un verde brillante. Rigogliosa. Le sue folte fronde sembrano quasi un grido di gioia rivolto al cielo.

Ovviamente è una gioia per gli occhi.

Respiro è vita. E’ la vita in noi. Non a caso si dice spirare, quando finisce per sempre. Non a caso dobbiamo respirare, per poter vivere.

E’ strano che non ci pensiamo mai.

E’ bello porre attenzione al respiro, e dirsi qualcosa di buono, o di gentile, al ritmo del respiro. Fa star bene.

E’ piacevole porre attenzione al respiro, invece di seguire quel groviglio di pensieri inconsulti quando mi sveglio di notte. Fa dolcemente scivolare nel sogno. Sogno ristoratore.

E’ bello, contemplare la vita in noi. Oltre a quella intorno a noi.

Sto ponendo attenzione perché questo ricordarsi di cosa è respiro per noi umani, questo indirizzare la propria attenzione al proprio respiro si consolidi in un’abitudine quotidiana. Fa sentire bene. Ci ricorda chi siamo. Che viviamo.

E’ da portare avanti quotidianamente, per tutta la vita. Ora lo so.

All’epoca, quando conobbi l’esistenza di questa semplice pratica, che allora veniva chiamata esercizio, non capii che bisognava nutrirla, come si fa con le piante. Cioè praticarla. Tutti i giorni. Con attenzione e cura. Per non smettere mai. Per non dismetterla mai.

Un po’ come quei saluti al sole che faccio tutte le mattine, o quasi. Una forma di stretching. Quella sequenza, semplice, di posizioni, semplici, è fatta nella maniera da far lavorare un poco le giunture ed i muscoli principali di tutto il corpo. Dolcemente. In modo che possiamo star bene. Nel mentre la eseguiamo. Anche nel mentre non la stiamo eseguendo.

Con il saluto al sole andò così: fu per colpa, o meglio, per merito di un’ernia. Mi ha tenuto a letto due giorni e due notti di dolore lancinante, senza tregua e senza riposo, ventiquattr’ore su ventiquattro. All’improvviso, senza motivo. Ero giovane. Facevo sport, ero forte e flessibile. Non avevo fatto nessun movimento strano. I medici mi accusarono di dolori immaginari. Ovvio. All’epoca c’era più o meno una Tac per un milione di abitanti, nel posto in cui vivevo.

Per fortuna era piccola, la ernia, e cominciò a riassorbirsi da sola. Ci mise quasi tre mesi, per riassorbirsi. Fu un’amica di mamma a dirmi: “Devi rinforzare i muscoli della schiena, per non ricaderci. Quando starai bene, vieni a fare gli esercizi con noi, così impari come fare.” Era un’insegnante di Hatha Yoga. Una vera stranezza. A quei tempi, in quei luoghi.

Nel tempo, ho capito che dovevo salutare il sole tutti i giorni. Sempre, per sempre. Per forza. Appena smettevo per un po’, ricominciava un lieve dolore nella schiena che sapevo che sarebbe peggiorato. Ci ho provato più volte, a non fare. Ogni volta ho dovuto ricominciare, e con disciplina. Prima che fosse troppo tardi.

Anche questa è una buona abitudine. Fa stare bene. E’ un’abitudine da coltivare con cura. Per non smetterla mai. Per non dismetterla mai.

Infatti ringrazio i piani alti per come è andata.

Anche per avermi mandato quell’ernia.

Si, sono seghe mentali. Fanno perdere tempo.

Tempo prezioso. Forse semplicemente ci devo passare attraverso. Magari con maggior equilibrio.

Ondeggiavo leggermente, di proposito. Una sensazione meravigliosa. La vista sulle cime degli alberi che coprivano le colline tutto intorno era magnifica. Il bosco è la pelliccia della terra. Se si guarda al bosco dall’alto, o semplicemente da lontano, si vede benissimo che il bosco è la pelliccia della terra. Morbida, variopinta, viva. Stranissima, sì. E bellissima. E’ bellissimo contemplarla.

Che ci faceva lì quel platano, me lo sono sempre chiesta, dalla prima volta che lo vidi, ancora bambina, anche se allora non sapevo che quel tipo d’albero si chiama platano.

Me la ricordo ancora, la meraviglia, quando lo scorsi per la prima volta. Era l’unico della sua specie, lì. Era chiaro che non c’entrava niente, lì. In mezzo al bosco misto, tipico della collina del clima continentale europeo.

Lo chiamavamo Soggiorno. Era gigantesco. Almeno a noi ragazzini appariva così. Comunque era il più grande di tutti gli alberi nelle vicinanze. Neanche in dieci bambini riuscivamo ad abbracciare il suo tronco. I suoi rami formavano una specie di stanza vegetale, sotto. Un soggiorno, appunto. Era bellissimo, stare là, nel Soggiorno. A me piaceva arrampicarmi su su, fino in cima, sul ramo più alto, quello che guarda verso il cielo - ogni albero ne ha uno così, in cima - e stare lì, nel punto più alto possibile, per il mio peso. E, a volte, ondeggiare. Di proposito. Tra l’altro, quello era un posto sempre libero. Nessuno voleva arrampicarsi fino a lì. Quindi non bisognava spostarsi di ramo, anche quando stavo benissimo dove stavo, perché qualcuno chiedeva una gentilezza. Eravamo di età diverse, io più o meno in mezzo. A quelli più piccoli, o meno esperti di scalare gli alberi si veniva incontro, sempre. Eravamo una banda, uno per tutti, e tutti per uno. Nel Soggiorno si chiacchierava. Si raccontavano un sacco di sciocchezze, ognuno la sua. Si rideva, sopratutto. Così tanto da cadere giù, se in quel momento si stava spaparanzati su un qualche ramo largo in basso. Per poi a ridere anche sopra questa, tutti quanti.

Dopo quella sventolata capii che dovevo tenermi più in basso. Arrivò all’improvviso. Cioè, vidi ondeggiare le chiome degli alberi sulla collina vicina, ma non capii cosa fosse prima di esserne investita: una potente e lunga raffica di vento.

All’improvviso cominciai ad ondeggiare pericolosamente, senza volere. Non potevo contrastare quell’ondeggiare, il vento era più forte, né scendere più in basso, il ramo ondeggiava troppo, troppo pericolosamente, dovevo continuare a tenermi con entrambi le mani.

Temetti che il ramo potesse spezzarsi sotto il mio peso, con la fatica che faceva muovendosi così, con me abbarbicata quasi in cima. Se fosse successo sarei arrivata a terra - se fossi arrivata a terra - in forma di bistecca tartara.

Più in basso, però, non si poteva più ondeggiare. Il ramo era più spesso. Doveva essere, più spesso. Niente ondeggiare in cima ad un albero. Era bello, però.

Che c’entra.

Che ne so.

M’è venuto così.

E’ bello avere questo tipo di pensieri.

Sospetto che mi faccia bene, al momento, visto che mi fa sentire bene.

Un violento lampo di luce. Letteralmente.

Partì all’improvviso dalla torcia nel mio palmo. Minuscola. E potentissima. La torcia. Me la fece conoscere l’amico di Irin, quest’estate. Quest’anno sono venuti a trovarci insieme. Poi mandò il link al sito dove potevo comprarla.

Camminavo al buio sul sentiero sotto gli alberi, nel palmo tenevo la minuscola torcia spenta. Durante tutto il giorno vi è stata una forte tramontana, trenta nodi, diceva la previsione. Possibilissimo, a giudicare da quello che avevo visto dalla finestra.

Nelle giornate così gli alberi si disfano dei loro rami secchi, a volte anche molto grandi. Al buio potevo inciamparci. Quindi la torcia poteva tornare comoda. L’aria fresca pungeva le narici, piacevolmente. C’era un silenzio speciale. Quel silenzio-silenzio. Quello che arriva subito dopo che il vento molto forte se ne va. Il cielo era terso, cosparso di miliardi di stelle. Attraverso i rami spogli degli alberi vedevo bene il loro infinito. Era struggente. Bellissimo, e struggente. Questa visione mi calmò. Avevo dovuto battere in ritirata, ed in fretta. Prima che mi uscissero dalle labbra le parole di rabbia. Naturale, sacrosanta. Ma questo non è importante. Se naturale o sacrosanta, oppure no. Fa lo stesso. Importante è non rimanerne prigionieri, non incarnare il suo messaggio. Non diventarne complici. Ecco perché battei in ritirata. A volte faccio così: mi disingaggio, il più velocemente possibile, e a volte anche un po’ scompostamente, per fare prima. E mi faccio una piccola passeggiata solitaria. Pazienza. Almeno respiro un po’ d’aria pulita.

Mi appoggiai al tronco di quella quercia che in altre stagioni forma una grande ed accogliente camera vegetale, sotto i suoi rami in basso. Chiedendomi se quella stella più luminosa delle altre, quella che vedevo al centro di un elaborato arabesco - i rami spogli che si stagliavano contro quel luminoso cielo notturno - poteva essere la stella del nord. No, non poteva. Il nord stava altrove. E’ venere.

Poi partì quel lampo di luce dalla torcia nel mio palmo, e ogni cellula del mio corpo venne investita da un terrore infinito. Non avevo mai sentito un terrore così, in tutta la mia vita. Ne rimasi scossa. Fisicamente, scossa. Per giorni.

Ovviamente non era successo niente di speciale, accidentalmente avevo sfiorato qualcuno dei minuscoli commandi della piccolissima torcia. Solo che, quell’improvviso lampo di luce così forte sortì un’effetto terrificante. Anche fisico. Come se avessi preso una scossa elettrica molto forte. Che mi rimase addosso. Proprio così, nel corpo. Per giorni.

Allora ci rimuginai. Non era normale. Avrei dovuto, casomai, sentirmi rassicurata, dalla luce. E poi, non era certamente la prima volta in vita mia che si riaccende accidentalmente la torcia che tengo in mano. Forse era un attacco di panico? Non ne ho mai avuto uno. Niente con cui comparare.

Mamma disse disperandosi che mi picchiava quando ero in fasce, che non sapeva quanto male faceva in questo modo, è che io piangevo e lei non sapeva cosa fare, e allora mi picchiava finché non stavo zitta, mi picchiava per zittirmi, che piangevo tanto e lei doveva zittire quei pianti insopportabili, che non sapeva come fare altrimenti. Ero già adulta, quando si disperò per questo, tanto, tantissimo, profondamente, con tutto il suo essere, non riusciva a smettere di disperarsi. Ovviamente io non mi ricordavo nulla, e non mi sembrò poi così grave, e poi anche se lo fosse stato, oramai era fatta, non aveva nessun senso disperarsi così tanto, a così tanti anni di distanza. Alla fine smise di disperarsi, ma vidi che non si convinse. Scordai completamente quell’episodio, per ricordarmelo ora. A forza di rimuginare su quel lampo con la torcia.

Il viso di lei che mi rinfacciava il fatto che ero nata, che nascendo avevo rovinato la sua vita. Ero la prima figlia, quando nacqui lei studiava all’università, e dovette smettere gli studi. Me lo rinfacciava ad ogni piè sospinto, per anni, per decenni, per poi pentirsene, dopo, e ricoprirmi di baci, o più tardi di scuse.

Di lei che non era mai contenta. Dopo che avevo eseguito alla maniera A, come richiesto, voleva che la cosa fosse stata fatta al modo B. Se la stessa cosa la facevo al modo B, perché richiesto, doveva essere stata fatta al modo A o C. Non andava mai bene niente. Quasi, mai. Per un certo periodo, verso i tredici anni, osservai il fenomeno. Per concludere che non c’era modo di farla contenta.

Il volto sorridente di lei che mi svegliava la mattina, per fami andare a scuola, facendomi una carezza sul viso. Dolcemente. Sempre, sempre con una lieve carezza sul viso. Di lei che con santissima pazienza insegnò a fare quel dolcetto, una ricetta speciale di sua invenzione, fatta con il latte appena scaduto, uova, burro, farina e cacao in polvere purissimo, ridendo e ballando in cucina.

Di lei che ci cuciva i vestiti, nei weekend. Speciali, bellissimi. Si divertiva a copiare i modelli dalle riviste di moda, e ci coinvolgeva tutti a farlo insieme a lei.

Di lei che stava in piedi al tavolo da disegno per i lavori extra, le serate intere.

Di lei che si vestiva per andare a teatro, bellissima e felice, facendoci raccomandazioni di andare a letto presto.

Deve avere sofferto moltissimo, e per moltissimo tempo, per decidere di andarsene, ad un certo punto. Andarsene per sempre.

E allora? Qualsiasi cosa trovi, che ci fai? Ci tappezzi i muri?” Guarda la trave nel tuo occhio, casomai te la puoi togliere. Ebbe a dire Flaminia, tempo fa. Di professione psicologa.

Cioè, a parte il virgolettato, il resto lo disse in modo molto, molto, infinitamente più gentile. Ma il significato è questo. Ovviamente aveva ragione.

Ovviamente ha, ragione.

Anna Maria Sepe disse nel suo primo libro che i pensieri possono presentarsi in modo talmente veloce che non ci rendiamo conto del loro contenuto, ma quel contenuto ci influenza lo stesso.

Normalmente quello che ci paralizza è paura. O terrore.

Paralizzarsi è un metodo per difendersi dalle aggressioni. Lo fanno anche gli insetti, quando si sentono in pericolo.

Sulle montagne, là dove nei paesini ogni famiglia ha almeno un morto da orso, si insegna esattamente questo: se incontri un orso non scappare, tanto è più veloce lui. Buttati a terra, e fingiti morto. Non muoverti. Bisogna tenere pazienza. Ti annuserà. Forse cercherà di smuoverti, con la zampa. Respira più leggermente possibile. Continua a fingerti morto. Tieni duro. Alla fine ti lascerà in pace.

Lo raccontavano quelli che si sono salvati così.

I sopravvissuti.

Venivano lette in modo teatrale le storie di Dracula il vampiro, con noi bambini seduti in cerchio sui sacchi a pelo in una soffitta, in mezzo ai boschi. Con le bocche spalancate, e gli occhi lucidi di paura. Poi la sorpresa: la prova di coraggio. Non era obbligatorio parteciparvi. Ovviamente iniziava allo scoccare della mezzanotte. C’era un poco da aspettare, la mezzanotte. Non bisognava addormentarsi. E allora si chiacchierava. Di vampiri.

La prova consisteva nel portare una torcia accesa in un punto preciso nel bosco, a circa mezzo chilometro di distanza, e lasciarla lì, accesa. Tornare alla luce delle stelle. Poi avanti il prossimo, modalità vice-versa: incamminarsi nel buio, e riportare la torcia.

Era la fine dell’estate, gli alberi indossavano il loro fogliame profumato che frusciava nel vento leggero.. sinistramente. Erano i vampiri appollaiati sui rami. O i vampiri che volavano tra i rami. Insomma vampiri in agguato tutto intorno, nascosti nel buio. Il cielo era cosparso da così tante stelle che gli oggetti facevano ombra, un poco sinistra anche quella. Ma dentro il bosco non è che si vedeva granché. Bisognava aguzzare tutti i sensi per non perdere il sentiero, quando non si disponeva della torcia.

A me è toccato di portare la torcia. Al ritorno, però, realizzai di sentire delle presenze intorno a me. Presenze vere. Reali. Facevano frusciare il fogliame per terra.

Infatti. Camminavo in un branco di cinghiali. Almeno una trentina. Alti quasi fino al mio sedere. Possenti. Ero più o meno in mezzo al loro branco. Quando riconobbi che erano loro, stranamente non ebbi nessuna paura. I vampiri erano di gran lunga peggio. Curiosità, piuttosto. Infine era addirittura bello, camminare insieme a loro. Così diversi, ma al passo comune. Armoniosamente. Ad un incrocio io presi un sentiero, e loro ne presero un altro. Quello che mi riportava da dove ero venuta. Chissà dove andavano loro. Allora ciao cinghiali, salutai dentro di me, educatamente. Non a voce. Sapevo che così li avrei disturbati. Secondo me hanno detto ciao anche loro.

Pensavo di non avere paura. Cioè di avere quella sana paura normale che non ti fa fare le idiozie, e le cose giuste invece sì.

E allora? Anche se dovessi avere paura di qualcosa e sapessi perché, o anche se non sapessi perché, in fondo è uguale, che ci fai? Ci tappezzi i muri?

In effetti ho paura, chiamiamola così, di tante cose. Che qualcuno mi righi la macchina, per esempio. Costa un sacco, riparare il danno, e io non so dove sta quel famoso albero su cui crescono i danari da sé. Anche se pongo attenzione a dove parcheggio, può succedere. Infatti, succede. Ma nessuno ci è mai morto, per una cosa così. Lo stesso vale per moltissime cose. Quasi tutte, le cose.

Un po’ come aveva da dire la professoressa di educazione fisica al liceo, quando entrava, d’inverno, nello spogliatoio femminile dopo la lezione. Di solito erano due ore di lezione attaccate insieme, e lei ci faceva faticare come muli. “Chiudere quella finestra! Di puzza non è mai morto nessuno, di freddo invece si!”

Ecco, queste paure sono un po’ come quella puzza nello spogliatoio. O la trombetta con cul. Infatti hanno un che in comune. Anzi, per essere più precisi, nello spogliatoio galleggiava un’odore che richiamava di più quella tipologia che arriva a sorpresa, in silenzio, ed ha la forza di un’esplosione atomica che si sparge tutt’intorno per chilometri. La loffia, insomma. Si vede che le pietanze invernali favorivano la produzione di quel tipo particolare di trombette con cul.

Da ragazzini avevamo un gioco, tra noi cuginetti. Quando ne arrivava una, ovviamente silenziosa e terribile, l’autore esclamava: “Attenzione, gas! I gas caldi salgono, tutti a terra!” Ci buttavamo a terra e rotolavamo là dalle risate, mentre commentavamo le caratteristiche peculiari di quella specifica esplosione silenziosa. Quel odore mefitico, in effetti, saliva. E si dileguava, prima o poi (a volte parecchio poi).

A una certa età, però, abbiamo smesso.

Infatti non bisogna buttarsi a terra, per cose così. Nemmeno per paure così. Non sono paure. Sono le trombette con cul. A volte loffie.

Se non siamo capaci di riderci sopra, prima o poi, vuol dire che le prediamo troppo sul serio. Che ci prendiamo troppo sul serio. Come bambini, appunto.

Non si deve neanche frignare, come bambini. A che pro? Si dà solo fastidio. A sé stessi, ed anche al prossimo. Non è che quel comportamento aiuti a risolvere una questione qualsiasi. Posto che ci sia una qualche questione da risolvere.

Quella volta che frignai me la ricordo ancora. Forse l’unica, in vita mia. Perché ero caduta. Dal cavallo. Che stava alla lounge. Fu quando il cavallo passò dal trotto al galoppo. Un galoppo lento. Un cambio di ritmo e io non mi sincronizzai, come avrei dovuto. Perciò poco dopo caddi. Non mi feci niente, i bambini sono elastici come gatti. Però frignai. Non frignavo mai, ma in quell’occasione sì. Forse per l’onta. Cavallo cattivo, mi ha buttato giù. Forse per paura di cadere ancora. O paura di chissà cosa. Paura, insomma. Cominciai a frignare silenziosamente.

Papà s’avvicinò. Cavallo s’era fermato da sé, in attesa dell’evoluzione. La lounge giaceva per terra come un serpente lungo e contorto, visto che papà ne continuò a tenere l’altra estremità in mano.

“Ti fa male da qualche parte?” Girai la testa da sinistra a destra ripetutamente, per dire di no. Non ero in grado di parlare. Era vero. Non mi faceva male da nessuna parte. Mi guardò con attenzione. S’avvicinò ancora e mi testò, chiedendomi: “Qui? E qui?” Frignavo, non proferivo parola, ma con i movimenti della testa dicevo di no. Era vero. Non mi faceva male da nessuna parte. Dopo avermi testato tutto il corpo s’alzò e disse:

“Allora risali sul cavallo”.

Non scoppiai nel pianto, ma quasi. Sarei morta piuttosto che piangere. Cominciai a tirare su con il naso. Allora disse:

“Non è successo niente di grave. E’ un cavallo buono. Lo vedi che s’è fermato da solo, e t’aspetta? Se vuoi imparare a cavalcare bene davvero, devi risalirci sopra. Adesso.”

Non potevo certo piangere. Allora frignai rumorosamente. Era quasi come piangere, ma non del tutto.

Mi guardò severamente e disse: “Devi risalire su quel cavallo. Ora. Io aspetto.” Mi diede le spalle e tornò dove stava prima, con le mani abbassate, lasciando la cima della lounge lasca per terra, palesemente in attesa.

Frignando risalii. Anzi, scalai. Avevo imparato la mossa per saltarci sopra, allungando la staffa da un lato per metterci il piede, contorcendomi come una scimmia per arrivarci, poi mi mettevo quasi appoggiata con le spalle sul collo del cavallo, per poter prendere il via con l’altra gamba, nel mentre mi tenevo con una mano alla criniera, per aiutarmi durante il salto. La staffa la riaggiustavo dopo, una volta in sella. Mi divertivo tantissimo a farlo, ma in quel frangente non ne ebbi la forza. Scalai la sella come una montagna ripida, frignando. Mi ricordo ancora, come frignavo. Che spettacolo orribile.

Poi, ovviamente, non successe niente di speciale. Passo, trotto, galoppo. Galoppo, trotto, passo. Trotto, salto su un piccolo ostacolo, trotto, e così via.

Tranne una cosa: scoprì, con meraviglia, che si può anche cadere. Cadere, rialzarsi, e continuare ad andare avanti.

E non succede niente di terribile.

Era un’ottima scuola, per molti aspetti. Funzionava così: vuoi la bicicletta? Allora pedala. Vuoi andare a cavallo? Allora pulisci il suo box. Bene, pulisci. Ecco la pala e la carriola. Non scordare di rimettere la paglia nuova sul pavimento del box. Pulisci il cavallo. Bene, pulisci. Specie dove va la sella. Se rimane molta polvere, poi lo prude. Non c’è da meravigliarsi se poi è inquieto. Metti tutti i finimenti e sella il cavallo. Come si deve. Mentre lo selli lui gonfia la pancia per non sentirsi la cinghia troppo stretta. Non stringere troppo. Ma aggiusta nel momento in cui si esce, quando stai già in sella. Altrimenti la sella si rigira con te in groppa, prima o poi. Al ritorno rimetti i finimenti al loro posto. Precisamente là dove segnato, non altrove perché libero o più comodo. Ripulisci il cavallo. Anche i zoccoli. Se rimane pietrisco dentro può causare dolore, e alla lunga le malattie dello zoccolo. Poi dagli da mangiare. Se vedi qualcosa di strano, riferisci. Se hai qualche problema, chiedi aiuto. Se serve aiuto a qualcun altro, daglielo. Dopo cambiati, altrimenti puzzi di cavallo, non puoi tornare a casa così. Solo allora, dopo che hai fatto tutto, puoi fare quello che vuoi tu. Mangiarti quel panino. Giocare. Quello che vuoi.

Era un’associazione. Il cavallo mio era mio il martedì ed i weekend, per esempio. Gli altri giorni era il cavallo di qualcun altro. Così lui, il cavallo, usciva tutti i giorni. Un anno era mio quel cavallo, o cavalla, l’anno dopo magari un altro, o un’altra. In base alle necessità dei cavalli, e delle capacità e della disponibilità delle persone. Lo stato forniva le strutture, un po’ malmesse, da mettere a posto, e non so quali altre cose. Il lavoro umano perché l’associazione potesse funzionare lo fornivamo tutti noi, compresi i bambini. Ognuno qualcosa, proporzionato alle sue forze, alle sue capacità. Avevamo anche degli obblighi extra tipo dipingere i pali della segnaletica nell’adiacente riserva naturale, controllarne i sentieri, i grandi multare le persone se maltrattavano la flora protetta. Poi finii. Qualcuno degli adulti che s’occupava dell’amministrazione rubò, la cosa finii sui giornali e l’associazione venne smantellata. A diciassette anni vidi qualcuno dei cavalli allo zoo. Dopo lo smantellamento rispuntarono lì. Sembravano degli zombie. Si mormorò sottovoce che alcuni fossero stati mandati al macello, troppo impegnativo prendersi cura di loro. Non so. I grandi non dicevano a noi giovani come girava il mondo, sviavano sempre il discorso. Un po’ come faceva Guido nel film La vita è bella. Anche se non eravamo poi così piccoli. Credo cercassero di proteggere noi, ed insieme anche loro stessi. Chissà che casino avremmo potuto fare senza rendercene conto, se dicevamo o facevamo qualcosa di inappropriato in giro. In fondo vivevamo in un regime totalitario.

Eravamo solo i piccoli compagni dei suoi giochi. Di papà. Ogni tanto. Finché eravamo piccoli.

Nessuno è perfetto. In alcune circostanze è necessario occuparsi di sé stessi, prima, per potersi occupare anche degli altri.

Persino le regole di sicurezza negli aerei dicono la stessa cosa: i genitori devono mettere la maschera d’ossigeno prima a sé stessi, e solo dopo ai loro bambini, in caso di necessità. Perché senza l’ossigeno si muore. E da morti non si può più aiutare nessuno.

Forse sto frignando?

A che pro?

Il giardino non ha muri né angoli. Sembra infinito. La vegetazione è rigogliosa e variegata. Anzi, lussureggiante. Sembra che da quelle parti crescano le piante di tutti i climi presenti sul globo messe insieme, intrecciandosi armoniosamente in una specie di bizzarro ordine. In qualche modo ricorda il giardino all’inglese, ma non è un giardino all’inglese. Si capisce che è spontaneo. E’ strano. Curioso. Bello, bellissimo, per me.

La bambina non piange. Sta seduta vicino al tronco di un maestoso albero, all’ombra dei suoi rami. Si abbraccia le ginocchia e guarda per terra. La posizione è da difesa, tuttavia è chiaro che non è dettata dalla paura. Forse è un raccoglimento in sé, più che altro. Sa che se ha fame può chiedere a chiunque tra quei gruppetti, le numerose famigliole che sul prato lì vicino fanno picnic, giocano o riposano. Sa che condividerebbero il loro cibo con lei, e con piacere.

E’ che .. è triste. Tanto triste da non avere neanche la voglia di chiedere. Nè di guardarsi intorno, per contemplare tutta quella bellezza.

Che fegnaccia. Da dove viene?

Non sto frignando. E’ normale sentirsi tristi, qualche volta. Ma anche comunicare. E’ un pò come respirare, è un bisogno fondamentale. Cosa oramai dimostrata anche dalle scienze moderne.

In fondo non faccio male a nessuno, in questo modo. Non dò fastidio a nessuno. Forse solo a me stessa, perché così perdo tempo, ed il tempo è prezioso. Ma questa perdita di tempo mi fa sentire bene, al momento. Allora non faccio male neanche a me. In fondo comunico tra me e me. Dovrebbe essere una cosa buona.

E poi, dove sta scritto che bisogna comunicare solo con gli altri? Anche se solo con sé stessi, sempre comunicare è.

I cinghiali. Ogni tanto vengono a trovarmi ancora.

Qualche anno fa ne cacciai un branco dal nostro giardino. Cioè, li accompagnai fuori. In ciabatte. Birkenstock. La suola regge bene, anche quando si cammina un po’ spediti. Persino quando il terreno è un tantino irregolare. Mi spiacque, doverlo fare. Peccato che rivoltano la terra un po’ ovunque. Se lo facessero esclusivamente sotto le querce andrebbe bene, ma quando lo fanno dove loro capita, poi tocca ripianare - e ci vuole parecchia fatica per ripianare - per non distruggere quel vecchio trattorino quando tagliamo l’erba.

Questa volta erano una decina, forse quindicina. Tutti perfetti. Bellissimi. Da pubblicità. Che aspetto deve avere un cinghiale perfetto? Eccolo. Quello lì.

Prima individuai il buco, o forse uno dei buchi da cui passavano. Poi li sospinsi gentilmente in quella direzione. Parlando loro a bassa voce. Spiegando loro che dovevano uscire. Scusandomi, con loro.

La terra è stata fatta per ospitarci tutti, siamo noi umani che non lasciamo agli altri nemmeno lo spazio essenziale per poter vivere. O generiamo altri fenomeni, gran parte di loro poco pacifici, poco armoniosi con ciò che ci circonda, allargandoci ogni dove senza ritegno.

Uscirono ordinatamente. Solo gli ultimi, poverini, entravano in panico ammassandosi intorno al buco nel tentativo di uscire prima possibile, nel mentre la testa del gruppo avanzava implacabilmente verso altre mete.

Irin fece da aiutante. Era meglio essere in due, per fare una specie di cordata. Non aveva mai visto un cinghiale dal vivo, prima, ma non ebbe nessuna difficoltà ad accompagnarmi. Anzi. Si incuriosì. E si divertì. Moltissimo. Tanto che il giorno dopo compose la Cinghiale Suite. Su quell’organo che il parroco, responsabile della chiesa che ospitava lo strumento, gli lasciava suonare tutti i giorni, durante la sua permanenza. All’epoca doveva esercitarsi quotidianamente, e in casa non c’è un piano.

Sì, a volte li incontro al buio mentre attraversano le strade nei dintorni. Vanno di fretta senza guardarsi intorno.

Sì, a volte mi sorprendono di giorno dicendomi ciao dai campi accanto alle strade, mentre sto tornando a casa.

Ciao, cinghiali.

Ma poi, perché dovrebbe essere triste, la bambina? Non ha niente che non va. Al pensiero sorride, finalmente.

Si alza e segue la voce, con un sorriso timido sulle labbra.

La sabbia è finissima. Le grandi dune ondulate ricordano le onde oceaniche in scala super maggiorata, ma ferme. Cioè, si sa che si muovono sempre anche dune del deserto, ma in un modo che il nostro occhio non percepisce, lì per lì.

In alcuni punti sono rossicce, quel rossiccio terra-di-siena, in altri invece gialle, di un giallo oro, opaco e delicato, che si staglia contro il cielo di un azzurro intenso.

La donna sta in piedi, in cima ad una duna molto lunga e molto grande. Davanti a lei l’immensità di quel deserto. Indossa una lunga veste vasta, di stoffa morbida e sottile, ma non affatto trasparente. Il volto è rivolto verso quell’orizzonte di sabbia ondulata. Lo sta scrutando, con i lunghi capelli al vento. Il vento fa aderire la veste al suo corpo, rivelando così le sue forme. Sbatacchia leggermente sulle caviglie. Lì vicino c’è una sorgente, uno zampillo d’acqua esce direttamente dalla sabbia. A guardare meglio, c’è anche una palma. Più palme. Di forme diverse. Altra vegetazione. La più variegata. E’ una propaggine, l’altro lato del giardino!

La donna non si accorse della bambina, è troppo impegnata a scrutare l’orizzonte. Allora la bambina s’avvicina, e in silenzio la prende per mano. Si guardano. Si sorridono.

E si riconoscono.

Stranissimo.

Da dove vengono queste immagini?

Allora se quel giardino finisce - o forse inizia - lì, da qualche parte deve esserci anche il mare. Quel mare che sta fuori dalla caverna. Magari ora è calmo, lambendo solo lievemente le coste rocciose con il suo respiro. Deve esserci anche un altro passaggio, o forse più passaggi, non solo attraverso quel tunnel subacqueo che stava nel sogno. Quale strada prendere? Inoltrarsi nel deserto? Oppure nel giardino?

Forse conviene seguire quello zampillo d’acqua. Diverrà un ruscello. Poi un fiume. E il fiume sfocerà nel mare. Ci sarà di che dissetarsi, e forse anche di che sfamarsi, lungo la strada. Molte specie vegetali hanno frutti commestibili, e vicino all’acqua la vegetazione prospera.

Dentro di noi si svolge una battaglia continua. È una lotta tra due lupi. Uno è malvagio: è rabbia, invidia, gelosia, avidità, arroganza, risentimento, menzogna, egoismo e superiorità.

L'altro è buono: è gioia, pace, amore, speranza, serenità, umiltà, gentilezza, generosità, verità, compassione e fede.

Il nipote ci pensò su, e poi chiese:

"Nonno, quale lupo vince?"

Il vecchio rispose semplicemente:

"Quello che nutri."

E’ attribuita agli indiani Cherokee, ma in realtà questa storiella viene raccontata un po’ da tutti i popoli, con piccole variazioni. Nella mia al posto del lupo c’è l’orso.

Ora ho capito. Sto nutrendo il mio orso buono, in questo modo. Non solo le emozioni che so di avere, ma anche quelle che non so di avere.

Sorpresa: il mare l’ho visto anche nella mia caverna! Cioè, non è mia. E’ la caverna in cui sono stata. In effetti la parola mia è una parola inappropriata. E’ lì che devo tornare. Ora devo ritornare nella caverna.

Non ci ho pensato subito, perché quel mare non aveva il cielo sopra. Ma poi, sopra ogni mare ci deve essere per forza il cielo? E poi, come faccio a sapere che non ci sta il cielo anche lì, da qualche parte? Ne ho visto solo un piccolo pezzetto, della caverna! Tra l’altro quel mare è un mare bellissimo, sempre. Calmo, sempre. Lo so, in qualche modo so che è così. Non sono riuscita a vedere dove finisce, tanto era vasto. Tantomeno che forme aveva la caverna, per quando era grande.

Sembra che da queste parti sia tutto connesso, in un qualche modo bizzarro.

Dalla caverna si va sulla montagna, nel giardino, ed anche nel deserto. Ma nel deserto c’è anche il giardino di prima. Chissà quanti passaggi ci sono.

Potrebbe esserci una formazione come a Guangxi Zhuang anche qui, da qualche parte. E se in Cina ve ne sono circa trenta, di formazioni così, chissà quante ne potrebbero essere qui. Vado nella caverna. Cioè, andiamo tutti nella caverna.

Il calendario di oggi dice: “La paura di disturbare diventa un bellissimo sorriso, non appena scopri che l’altro non vedeva l’ora di essere disturbato.” Si chiama Calendario Filosofico. Ogni giorno riporta una frase da leggere, dopo avere girato la pagina. Me l’ha regalato un’amica.

Forse dovrei dire qualcosa al Professore, visto che viaggiamo insieme. E’ l’unico a non essere informato. Ma dice di non dover essere disturbato, solo in caso di difficoltà, e questa non è una difficoltà.

E’ solo un imprevisto.

Un cambio rotta.

Ma non è certo una difficoltà.

Oltretutto il Professore ha lasciato istruzioni dettagliate, proprio per non essere disturbato. Montagne di istruzioni, dettagliatissime. Il sapere dell’umanità intera, nei millenni fino ai giorni nostri.

C’è dell’altro. Il Professore dice, nelle istruzioni, di non raccontargli i fatti propri. Io un po’ ne racconto, ma solo perché fanno parte di questo viaggio qui. Che poi si è rivelato di essere un’ esplorazione, sebbene un tantino curiosa.

Ma poi, a guardare meglio, sono solo storie, storie vecchie. Forse neanche storie, ma interpretazioni, o racconti, o fiabe, miti, sogni. Chi lo sa cosa sono. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti, in un viaggio così bizzarro?

Secondo alcuni proprio la comunicazione poco efficace portò al riassestamento del tutto imprevedibile, e di dimensioni epiche - almeno questo è ciò che si racconta circa l’effetto della battaglia di Trafalgar, per esempio.

Ma qui non siamo in battaglia.

Nemmeno in espansione.

In esplorazione, piuttosto.

Del tutto pacifica.

Con finalità del tutto pacifiche.

Che c’entra.

Che ne so.

Normalmente è cortese, informare, se vi è stata una qualche modifica rispetto a quanto è stato previsto.

Proprio perché vi è stata una qualche modifica rispetto a quanto è stato previsto. Nonostante le istruzioni. Potrebbero avere anche loro un qualche imprevisto.

Ma come faccio sapere quanto è stato previsto?

Potrebbe benissimo essere stato previsto anche il cambio rotta, in quello che è stato previsto.

Il disturbo, cioè fastidio, è la forma più lieve del dolore.

E’ brutto, causare dolore. E’ brutto, causare fastidio.

E’ bello, invece, far piacere.

Oddio, un’altra sega mentale, gigantesca anche.

E’ giunto il punto di finirla, con queste seghe mentali.

O, perlomeno, di ridimensionarle radicalmente.

Più ordine. Più disciplina. Altrimenti non si va da nessuna parte. Cambio rotta, appunto.