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TERZO

Impostare pilota non è tanto semplice.

Tutte le voci trovate suonano artificiose.

Poi mi è venuto in mente: ma tu non hai una voce, tutta tua?

Che sei, muta?

Forse è questo, quello che facevo, che ho fatto in qualche modo tutta la vita. Cioè, non è che non usavo la mia voce, a volte la usavo persino troppo, ed a volte anche a sproposito - cose di cui vergognarsi - ma un po’ come se mi zittissi dentro, mi zittissi da sola così tanto da non sentirmi più, da non sentire la mia voce, pur usandola persino troppo.

E’ paradossale, ma in qualche modo mi sembra fosse proprio così.

Quindi la voce di donna, per il pilota.

La bambina dice che è la scelta giusta - tra l’altro l’unica scelta giusta - meravigliandosi come i grandi tendono a complicare le cose anche quando sono semplici.

Specialmente quando sono semplici.

Nel frattempo si va avanti comunque. Si naviga a vista, per così dire. Tanto la direzione la so, più o meno. Al peggio si va un po’ a zig-zag.

Un po’ come in barca quando si prende una raffica. Quando, invece di risalirla, la raffica, tenendo la barca dritta, la barca sbanda dentro la raffica. Perdendo così di velocità. Ed anche di efficacia, nel raggiungere la meta. Visto che da sbandati si scaroccia.

Ma qui non siamo in regata.

Sbandare è una sensazione piacevole, per me. Cioè, sbandare la barca. E’ un po’ come quell’ondeggiare in cima ad un albero. A volte lo faccio di proposito. Scuffio persino, di proposito. Per rimettere subito dopo la barca dritta, senza bagnarmi neanche un’alluce. Si fa per dire. Farlo è divertente, specialmente quando c’è troppo poco vento per gonfiare la vela. D’estate. Solo d’estate.

A dire il vero, l’alluce è già bagnato di suo, su una deriva singola, anche prima di scuffiare la barca. Semplicemente bisogna raddrizzare la barca appena scuffiata, senza cadere in acqua. Perché costa un po’ di fatica risalirci, dopo. Fatica del tutto inutile, se non si ha nessun’intenzione di farsi l’ennesimo bagno. Tutto qui. Insomma è solo un giochino.

E’ che fa bene giocare, ogni tanto. Lasciare che ogni tanto abbia voce anche quel bambino, o bambina, che ci portiamo dentro. In modo che non la perda, la sua voce.

Potrebbe anche non essere necessariamente un male, andare un po’ a zig-zag.

Per un pochino.

Ho sperimentato che bisogna allenarsi un po’, per poter impostare bene il pilota. Per farlo il più bello possibile. In modo che il pilota possa far bene il suo lavoro di pilota, anche con la nuova impostazione.

Forse mi è venuto in mente di cercare un’altra voce solo per pigrizia.

Così non avrei dovuto allenarmi. Visto che non l’ho mai fatto, di sicuro avrei dovuto allenarmi. Lo sapevo. Lo sapevo benissimo.

Quindi ho cercato di scansare di allenarmi.

E’ proprio così.

Senza forse.

La necessità, anzi l’obbligo di allenarsi, chiamiamolo così, vale sostanzialmente per ogni cosa che facciamo, se la vogliamo fare bene. Anche questo lo sapevo, lo so benissimo. Lo so da sempre.

Per esempio, non si può scendere giù a valle sugli sci, avendo una posizione tutta scomposta - non ne va solo di gradevolezza, per chi guarda, ma anche di efficacia, e sopratutto di sicurezza, per chi lo fa. Si rischiano incidenti, non sapendo far abbastanza bene, o non avendo la cura di far abbastanza bene. Cioè efficacemente.

La stessa cosa in barca. Non si va da nessuna parte, in quel modo lì. Per giunta si rischia incidente, e di brutto. Ed anche un brutto incidente. Specie se c’è vento.

Oltretutto il vento va dove piace al vento, e non dove piace a noi. Potrebbe anche palesarsi all’improvviso.

E, sopratutto, in quel modo non è bello.

Non c’è nessun’armonia, né piacere, né efficacia, nel fare così.

Non perché qualcun altro stabilisce che bisogna per forza fare in un modo, piuttosto che in un’altro modo. Non me ne importa un fico secco, di come la pensa qualcun altro.

E’ per me che deve essere bello, armonioso, e quindi normalmente anche efficace. Abbastanza efficace. A volte il resto si può migliorare anche strada facendo.

Efficacia è solo un sottoprodotto, un segnale. Dice di aver fatto bene. Se non c’è, anche quando ho fatto tutto il mio meglio, vuol dire che quel mio meglio, il migliore possibile, non è bastato. Quindi è da migliorare. Allenandomi.

Capace che anche questo allenarsi è di gran piacere, nonostante la fatica necessaria per la sua esecuzione. Anzi, quasi sempre è così. Basta fare sempre il proprio meglio.

Di fichi secchi, invece, mi importa. Sono buoni da mangiare. Anche se quelli freschi sono di gran lunga più buoni, per il mio gusto. Non sono troppo dolci, anche quando sono tanto dolci.

Questo fatto, che non si può far bene niente senza allenarsi mi appare lapalissiana, si dimostra da sé, visto che tutti gli uomini e tutte le donne sulla terra hanno imparato, per esempio solo a camminare, cominciando proprio con allenarsi a camminare! Tutti quanti. Quasi da subito, ancora in forma di miniatura. Ne abbiamo fatto esperienza, tutti quanti.

Come mai tendiamo a scordarcelo?

Questa maledetta tendenza a farmi le seghe mentali, a perdere tempo a girare di qua e di là, peggio dell’ amico di Fridolin! (Personaggio in un vecchio libro.)

Però.

A forza di girare di qua e di là, ho scoperto di avere avuto un pensiero malefico: invito-alla-pigrizia! Pensiero che non sapevo di avere. E che l’ho seguito. Senza saperlo. Senza rendermene conto.

Forse significa che a volte mettiamo in atto quello che ci dicono di fare i pensieri malefici, proprio perché non ce ne rendiamo conto? Altrimenti non lo faremmo mai?

Comunque, l’ho messo in atto senza sapere che mettevo in atto lui, cioè lei: la pigrizia. Insomma ci ho provato, in quel modo lì. Solo che faceva schifo. Suonava artificiale.

Infatti, faceva schifo.

Ops, scapati i francesismi. A volte sono efficaci, i francesismi. E’ per questo, che a volte scappano. Non sempre è grave, se scappano. Bisogna essere gentili con sé stessi, e non sentirsi in colpa. Bisogna, però, essere altrettanto gentili con gli altri. Quindi a volte è proprio dovuto fare in modo che non scappino.

Vista la scoperta orribile su di me, per tirarmi su dovevo farmi almeno una risata.. ed eccolo, scappato il francesismo!

A volte fanno anche questo, i francesismi. Fanno ridere.

Ma non è sempre così.

Comunque bisogna scoprire perché, ho avuto un tale pensiero malefico. Non è normale. Così come non è normale non accorgersene nemmeno. E, pertanto, seguirlo.

A propria insaputa.

E poi. In questo modo ho anche ricordato, a me stessa, sopratutto a me stessa, com’è che vanno fatte le cose. Tutte le cose. Come se me lo fossi scordata. Pur non essendomelo scordata. Continuo a farle così, le cose - quelle di cui so.

Ma nonostante questo, eccomi qui: beccata!

Chissà quali altre cose poco piacevoli trovo.

Pazienza. Nessuno è perfetto.

Ma poi, perché mai dovrei essere perfetta?

E come deve essere questa perfezione? Chi dice che deve essere fatta in un modo, piuttosto che in un’altro, e non al contrario, per esempio? O in un terzo, un quarto, un quinto et cetera? Che è questa pretesa di perfezione che non si sa neanche cos’è?

Comunque, non è morto nessuno. Avanti così. Ma meglio.

S’è visto che si può fare di molto, molto meglio.

Ora mi accorgo di alcuni pensieri malefici.

Vengono ogni qualvolta voglio fare qualcosa di buono per me.

Ahi, questa l’ho già sentita.

Mi accorgo di avere avuto abitudine a remarci contro finché il piacere di fare le cose non prevaleva. E’ così che riuscivo a fare qualcosa.

Solo che remare contro è una fatica immane, alla lunga. Alla lunga stanca, stanca terribilmente. Non si può remare contro sempre, per sempre. Quando le forze vengono meno, ed è naturale che ad un certo punto vengono un po’ meno, bisogna tirare i remi in barca per riposarsi, almeno un po’. Così però si viene trascinati dalla corrente.

E la corrente va dove pare a lei.

Portandoti con sé, se hai i remi in barca.

La stessa cosa bisogna fare quando si finisce in un vortice: bisogna mettere i remi in barca. Con la differenza che ad un certo punto, e nel momento opportuno, bisogna dare qualche bella pagaiata ben mirata e potente per uscirne.

A starci dentro troppo ti risucchia, il vortice. O meglio, cominci a girare sempre di più, a girare troppo, tanto da non riuscire a mantenere equilibrio, e così ti capovolgi. E’ matematico che così ti capovolgi, prima o poi. Lo dicono tutti quelli che vi sono passati, che sono rimasti a girare troppo a lungo dentro un vortice.

La tecnica di mettere i remi in barca dentro un vortice per poi uscirne tranquillamente la sperimentai di persona, la prima volta sul corso principale del fiume, con la pagaiata dopo due giri di vortice, su di un kayak doppio, ancora da ragazzina. Funziona benissimo.

Li abbiamo visti in un gran numero di persone. Del tutto per caso, facendo semplicemente una passeggiata sulla riva, nel punto dove s’affaccia alla confluenza tra i due fiumi.

Un classico, di domenica, per molte persone, passeggiare lì. E’ bello, passeggiare lì e guardare come si uniscono i due fiumi. Fiumi molto diversi tra loro.

Li abbiamo visti mentre salivano sulla loro nuovissima canoa. Mancava solo il celophan sopra.

Sulla canoa il remo in dotazione è corto, ha un lato solo con la pagaia, perciò vi si può pagaiare da un lato solo della canoa. Si può cambiare il lato da cui si pagaia, ma allora non si pagaia dall’altro lato. Sul kayak è diverso. Il remo è lungo, viene impugnato al centro, e si pagaia su entrambi i lati. Magari calibrando la forza delle pagaiate. O anche saltando qualche pagaiata, se opportuno. Beh, sulla canoa idem, circa il calibrare, saltare, contrastare la corrente con la pagaia e così via. Sono imbarcazioni molto simili, ma anche molto diverse.

Comunque su entrambi bisogna sincronizzarsi, tra i vogatori. Comunque su entrambi si pagaia, per andare da qualche parte.

Però. Tutti e tre, quei giovani uomini, con i pantaloni jeans e i giubbotti jeans. E quei scarponi alla militare, neri a mezzo polpaccio, o quasi.

Se devi dare un calcio al prossimo lo sfondi, con una scarpa così. Ma se sali su una canoa con quella scarpa lì, è lei che sfonda te. Nel senso ti porta a fondo. Non è la cattiveria della scarpa. Lei è fatta così. Pesa uno sproposito, se riempita d’acqua. Pesa così tanto, che ad un certo punto non puoi più disporrne, e così, a partire da quel punto, è lei che dispone di te. Suo malgrado. Portando con sé anche te. Suo malgrado. Lo sanno tutti.

Tutti imparano a nuotare al più tardi tra i sei e i sette anni, nei corsi obbligatori organizzati dalle scuole. E da allora in poi anche tante altre cose. Obbligatoriamente.

Ci siamo immischiati cortesemente, chiedendo loro di rimandare il varo. Troppo pericoloso, andare sul fiume vestiti in quel modo. e senza i giubbetti salvagente.

Grazie, la prossima volta lo faremo di sicuro, hanno risposto.

Dopo pochissimi minuti sull’acqua sono finiti nel punto della confluenza, hanno cominciato a girare in un vortice, si sono agitati scompostamente e poi si sono capovolti. Lì, dove si incontrano le acque dei due fiumi vi sono molti vortici.

Hanno cercato di trattenere la loro nuovissima canoa - cosa impossibile, con la corrente che scorre in quei posti, contrappuntata dai vortici - invece di dirigersi verso la riva immediatamente, finché avevano le forze.

Il vortice risucchia tutto quello che raccoglie, e lo porta sul fondo, per poi risputtarlo in superficie, dopo un po’. Se l’oggetto rimane all’interno del vortice, lo porta di nuovo giù, e poi di nuovo su, e di nuovo giù, e poi di nuovo su, anche molte volte, finché non esce dal suo potere da sé, o in superficie, oppure sul fondo.

Era una luminosa giornata di marzo, ma faceva freddo. Tutti indossavano ancora dei piumini o dei capotti, insomma cose calde ed anche un po’ pesanti.

Un uomo si spogliò e si tuffò nell’acqua, completamente nudo. Doveva essere un nuotatore molto esperto, molto allenato, ed anche molto conscio di come muoversi vicino a chi sta affogando, per non rimanerci anche lui.

La polizia di terra non aveva nemmeno una cima in macchina, per potergliela lanciare, a quei giovani uomini in acqua. Non erano poi così lontani dalla riva. Quella fluviale arrivò dopo mezz’ora. Troppo tardi.

Se ne salvò uno solo. Grazie ad un kayak. Che si avvicinò, con circospezione, manovrando all’indietro con grandissima bravura, su quelle acque pericolose, per porre l’estremità posteriore della barca alla portata del giovane. Che vi si aggrappò spasmodicamente, e così si salvò.

La natura è bellissima e terribile, insieme. E’ generosa ed avara, insieme. E tante altre cose. Cose alle quali attribuiamo significati come essere buono o cattivo, bello o brutto, piacevole o spiacevole, e così via. Ma questo sono giudizi.

Non si può giudicare la natura. Bisogna solo osservarla. Lo disse anche il Professore, da qualche parte. Ma per poter osservare non bisogna agitarsi. Bisogna essere calmi. Calmi dentro.

Tra l’altro questo è l’unico modo in cui si è in grado di fare la cosa giusta, nel momento giusto, e nel modo giusto. Una cosa qualsiasi.

Quindi tutte le cose.

Come si è visto anche qui. Se quei tre avessero mantenuto la calma, uscivano da quel vortice senza capovolgersi. E forse la volta dopo si sarebbero messi i giubbetti salvagente davvero.

Questa volta non ho fatto proprio niente. Semplicemente ho detto: “Ahi, sei qui.” Al pensiero malefico. Mi ero accorta che un pensiero era li, così l’ho guardato per bene, e ho visto che era malefico. Non disse niente. Scomparve. E’ anche maleducato, il disgraziato.

Anche questo il Professore lo disse, da qualche parte. Non a proposito della maleducazione, ma a proposito dell’improvvisa scomparsa sì. Infatti, a guardare bene, disse tantissime cose, tra le righe. O meglio, oltre le righe. Un po’ come nella musica. In entrambi si riscontra lo stesso fenomeno: tante cose oltre.

La musica fa bene. Quando nutre l’orso buono. Lo sentiamo, che fa bene. Quando invece nutre l’orso cattivo, no, non fa bene. Sembrerebbe incredibile, ma esiste anche la musica che nutre l’orso cattivo.

Interessante. Anche le seghe mentali possono nutrire sia l’uno che l’altro.

Lo dice anche la bambina. Quando si prova piacere, è possibile che sia una cosa buona. Quando si prova disgusto, o dolore, è possibile, ed anche probabile, che sia una cosa cattiva. Ma non sempre.

I bambini sono anche saggi, a volte. Ma non sempre.

E’ che hanno quel difetto. Soffrono paura. Di questo bisogna tenere conto. Sanno di essere piccoli. Che chiunque li può sopraffare. Ovunque. In qualsiasi momento. Cioè far morire. Quindi fanno di tutto, per vivere. E’ la prima legge della natura, l’istinto di mantenersi in vita.

Mi accorgo che sto citando il Professore, forse solo con parole un poco diverse. Non c’è da meravigliarsi, visto che il Professore viaggia con noi.

Ma proprio per questo elaborano tante strategie, i bambini. Per questo sono così curiosi e creativi. E quando si sentono al sicuro, sperimentano, sperimentano molto più degli adulti. Immaginano, e fanno cose che agli adulti non verrebbero in mente mai. Perché non hanno esperienza, e quindi non hanno pregiudizi. Diventano persino spericolati, per questo. Non si rendono conto. Quindi serve loro l’insegnamento degli adulti. Non tutto quello che sanno, gli adulti. Solo cose tipo non sciare fuori pista. Non andare in barca senza il giubbetto salvagente. Solo cose così. Magari dicendo anche il perché. In modo da non umiliarli. Anche se sono piccoli, e quindi non possono difendersi. Lasciandoli sperimentare. Stando loro vicino.

La bambina ha avuto una delle sue magnifiche idee, con il pilota. Non ha funzionato.

Però.

A forza di cercare di farle funzionare tutti quanti, le sue magnifiche idee, si sono scoperte cose nuove. Che hanno funzionato! Anche se ancora da migliorare altro un pochino. Comunque piacciono sia alla madre che al padre.

Mi sembra che questo esplorare funziona un po’ come allenarsi. Fa bene. Fa bene comunque.

Come osservò Tullio Tentori, il sociologo, la Prima Legge, l’istinto di sopravvivenza, è valida per tutti gli organismi vivi, quindi anche per gli organismi creati dagli uomini come le associazioni, le classi sociali o i governi, per esempio. Perché anche loro sono vivi. La loro prima regola non è prendersi cura dei propri membri, ma di mantenersi in vita, così come si è, con le proprie peculiarità specifiche come organismo.

Lo si vede bene specialmente nelle guerre. In genere vengono sacrificate molte persone, nelle guerre. Molti membri. Non è cattiveria. E’ l’istinto di sopravvivenza. L’istinto di continuare a vivere con le proprie peculiarità specifiche, così come si è come organismo, anche al costo di sacrificare pezzi di sé.

Le vittime delle guerre sono un pò come la zampa della volpe.

Anche le volpi, quando prese in trappola, si staccano la propria zampa a morsi, per poter scappare. Sacrificano un pezzo di sé, per poter continuare a vivere. Vivere al loro modo volpesco, anche senza la zampa.

Ma qui non siamo in una lotta, tantomeno nella lotta per la sopravvivenza. Siamo in esplorazione.

Decenni fa un’amica raccontò, in una conversazione, che all’università di veterinaria dove studiò prima di esercitare la professione si insegnava che la legge fondamentale, la Prima Legge, è la legge del Piacere. Insieme a quella dell’Istinto di Sopravvivenza. Allora mi meravigliai. Fu una scoperta, per me.

Gli insegnamenti impartiti dicevano che è l’istinto di sopravvivenza, ciò che guida le azioni di tutti gli esseri viventi, quindi anche le nostre. Di noi, mammiferi chiamati esseri umani. Che è lui che ci tiene in vita. E’ lui che ci spinge alla vita. L’istinto di sopravvivenza. Solo lui.

Però.

In effetti non mangeremmo, se non provassimo piacere di mangiare, per esempio. E, quindi, ad un certo punto, moriremmo di fame. Infatti le persone che perdono il piacere di nutrirsi - che smettono di mangiare perché non ne hanno più voglia - vengono alimentate artificialmente, per tenerle in vita, negli ospedali. Altrimenti morirebbero.

Ad osservare bene, proviamo piacere nel espettare tutte le funzioni vitali. Quelle essenziali per poter vivere. E’ bello respirare. Proviamo piacere. Al non poter respirare proviamo dolore. Infatti non respirando si muore. E così via, a guardar bene è così un po’ con tutto, non solo con le funzioni vitali essenziali.

Istinto di sopravvivenza ci spinge a preservarci in vita, a sopravvivere. Il dolore ci spinge verso la morte. Il piacere ci spinge verso la vita. Per questo cerchiamo cose che ci fanno star bene, cose che ci fanno provare piacere.

Non è un vezzo. E’ un istinto.

Non bisogna giudicare.

Così si incarnano solo i propri pregiudizi.

Magari anche positivi, ma sempre pregiudizi sono. Non si può imparare niente, se tutto è già stato deciso in anticipo. Per imparare bisogna osservare. Bisogna solo osservare.

La cosa qui è alquanto complessa.

Ma anche questo è un giudizio. Bisogna solo osservare.

Si chiama Euphorbia rigida. La osservo da un bel po’ di giorni. Come sempre, in questo periodo. E’ in fiore, adesso. Si è allungata, da circa un mese da queste parti. Ora è alta buoni ottanta centimetri. Tanti peduncoli larghi quasi due centimetri portano in capo un fiore. Ogni peduncolo un fiore. Cioè, sembra che sia un fiore solo, ma in realtà quella formazione floreale alquanto decorativa è formata da molti fiori più piccoli, di un giallo verdognolo. Un colore abbastanza strano. Poco da fiore. I fiori indossano più spesso i colori sgargianti. Ha un suo fascino, però.

Ieri i peduncoli hanno cominciato ad assumere forme leggermente curve. L’insieme è molto pittoresco. Ricorda un fuoco d’artificio fermo lì, per la gioia degli occhi ogni qualvolta vi si posano sopra.

Quando la vidi per la prima volta, assomigliava ai capelli di Medusa. Quel personaggio della mitologia greca. I peduncoli attorcigliati buttati per terra, tutti aggrovigliati come serpenti. Anche il loro colore, come i serpenti. Infatti esclamai: “Capelli di Medusa! Sarà velenosa!”

Infatti è, velenosa. Non lo sapevo affatto. L’ho scoperto, quando ho scoperto come si chiama quella pianta, e così ho potuto investigare che strano animale è. Si fa per dire, animale. E’ una pianta. Volevo buttarla. Perché mi faceva ribrezzo. Perché ricordava i serpenti. Anche se non ho nessuna paura dei serpenti. Solo ribrezzo.

Da ragazzini abbiamo acchiappato, ovviamente in gruppo, una di quelle bisce che avevano nido in soffitta. Tecnicamente chiamata Colubro di Esculapio. Per misurarla. Era una fatica allungarla, la biscia era fortissima e si dimenava tutta. Era lunga due metri e sessanta centimetri. Forte. Dopo averla misurata l’abbiamo lasciata andare. Naturalmente. Non credo sia tornata a fare il nido, in quella soffitta. Poverina, si capiva benissimo che era spaventata a morte, nel mentre la misuravamo. Ecco perché si dimenava così.

Neanche mi ci avvicinai bene, all’ Euphorbia, allora. Così non la guardai bene. Fu Emanuele che la guardò da vicino e disse: “Guarda, qui in mezzo sembra ci sia qualcosa, forse non è del tutto morta. Non sai nemmeno cos’è e già la vuoi buttare, questa pianta?”

Era vero, ed aveva ragione. Ragione da vendere. Ero partita in quarta, con l’idea di uccidere Euphorbia solo perché aveva quell’aspetto per me ripugnante, in quella fase del suo ciclo vitale. Di cui non sapevo niente. Non sapevo niente di lei.

Da allora osservo ogni anno come cresce, sembra dal nulla, come fiorisce, ricordando fuoco d’artificio, come muore, trasformandosi in capelli di Medusa, per rinascere di nuovo, magicamente, poco dopo. Fa così, anno dopo anno.

Tra qualche settimana, forse un po’ più in là, farà di nuovo i capelli di Medusa. Ha già qualche fogliolina nuova, nascosta al centro, coperta tutto intorno dai numerosi peduncoli cicciotti. Le piccole foglioline nuove non si vedono, se non si va a cercarle.

Certo, le chiedo scusa. Fortunatamente non è successo nulla.

Sembra mi abbia perdonato.

Lei, Euphorbia.

Si scopre sempre qualcosa di nuovo. O meglio, non è nuovo, perché è sempre stato lì da qualche parte e io lo so benissimo, e qui me lo racconto e basta, ma sembra che questo metterlo in parole aiuti in qualche modo a vedere le cose con più precisione, con più chiarezza, conoscerle meglio, in qualche modo. Un po’ come conoscere meglio Euphorbia.

Mi sembra, poi, che proprio questa miglior chiarezza aiuti a mantenere quella centralità circa il viaggio raccomandata dal Professore nelle sue istruzioni.

Aiuta nonostante tutti gli imprevisti.

Forse gli imprevisti sono stati previsti.

Tra l’altro, mi sembra che le istruzioni stiano un po’ di qua e un po’ di là, in molti posti diversi, in buona parte anche in una forma assai divertente, il che non è affatto un male. In ogni caso, per me tutte le istruzioni sono una specie di corpus unico che riguarda proprio la caverna, anche se non lo si dice da nessuna parte in questo modo qui.

Ahimè, continuo a raccontare sempre un po’ dei fatti miei. E’ che è un po’ difficile raccontare dell’osservazione di Euphorbia, per esempio, senza dire che sto osservando Euphorbia.

Ed il serpente? Dice che avrei voluto uccidere Euphorbia solo e puramente per il mio pregiudizio, ignoranza e superficialità. Brutto, ma vero. Anzi, bruttissimo. E verissimo.

Fu proprio così, in quel momento, il mio comportamento.

Non solo. Il serpente punta il dito - anche se non ha un dito - per farmi vedere ben bene la grandezza della cattiveria del mio comportamento, ed insieme anche la magnifica bellezza di Euphorbia.

La cattiveria impedisce di vedere bene.

Di vedere specialmente la bellezza.

Bisogna osservare.

Per vedere bisogna osservare.

C’è di più. Il serpente m’avvisa che il pregiudizio, l’ignoranza e la superficialità sono sempre in agguato. In silenzio cercano di impossessarsi di noi, senza che ce ne accorgiamo. Sempre in agguato.

Quando si sa cos’è in agguato, e come è fatta quella cosa in agguato, almeno più o meno, è molto più facile a non rimanere vittima dell’agguato. Insomma, aiuta.

E osservare allena. A vedere cose. A come sono quelle cose. A conoscerle meglio. E, con questo, aiuta ad essere vigili. E, quindi, a non rimanere vittime degli agguati.

Quasi scordavo. Sempre a proposito di Euphorbia. A parte averle chiesto scusa, la ringrazio. Ogni volta che la vedo, la ringrazio. Con immensa gratitudine. Non solo per avermi perdonato, ma anche perché continua a mostrarmi la sua magnifica bellezza. Senza nessun’intento specifico. Si mostra così come è, con gioia. Si capisce che lo fa con gioia. Per questo è una gioia per gli occhi.

Nel mentre cresce dal nulla. Fiorisce come un fuoco d’artificio, con i colori di un fascino discreto, da scoprire poco a poco. Ed infine muore, assumendo la forma dei capelli di Medusa. Questo per ricordare che contiene veleno.

Il veleno, poi. Storicamente, alcune specie di Euphorbia sono state utilizzate nella medicina tradizionale per le loro proprietà purganti, emetiche e antimicrobiche. Ed anche oggi, vi sono sostanze che contengono alcune Euphorbia che vengono utilizzate perché stimolano le attività antitumorali, anti-infiammatorie, antimicrobiche e neuroprotettive, e per le loro proprietà antiossidanti e idratanti.

Lo dicono gli aiutanti. Quelli che si occupano dell’archivio. Presi singolarmente, noi umani non riusciamo a contenere tutto l’archivio, tutto lo scibile umano in noi, ed averlo sempre presente. Per aiutarci ci aiutano gli aiutanti: le riviste, i libri, le biblioteche, internet, AI. Ma anche qui, bisogna guardare, osservare. Anche tra gli aiutanti regna una confusione del tutto umana.

Bisogna guardare, osservare bene. Per non far la fine di quella persona che si è bevuta la candeggina perché da qualche parte sull’internet c’era scritto che fa bene. Il cloro, in quelle concentrazioni, non fa bene, ma male. Un gran male.

Bisogna guardare. Bisogna osservare.

Osservo Euphorbia.

Lei si mostra così come è, senza nessuna vergogna. Esprime gioia, tutta sua, e insieme la sua strana, sorprendente, magnifica bellezza semplicemente nascendo, crescendo, morendo e rinascendo magicamente, anno dopo anno.

I pensieri sono esseri speciali. Viaggiano così velocemente che è difficile accorgersi di loro, nel mentre passano. Ed è molto facile scordarsi di loro, anche quando ci accorgiamo della loro presenza, perché spesso la loro presenza è assai breve. A meno che non ti ci metti a chiacchierare.

Alcuni di loro sono maleducati, però. Li fermi gentilmente, li saluti e loro puf, non dicono nulla e scompaiono. Neanche rispondono al saluto. Davvero maleducati.

La maggioranza, invece, è molto, molto, infinitamente gentile. Quando ti accorgi di loro e li saluti, si fermano e si mettono a chiacchierare con te. Dicono un sacco di cose interessanti. Fanno domande interessanti. Danno risposte interessanti. Si interessano a te, come tu ti interessi a loro. Ragionano in modo interessante. Così s’imparano un sacco di cose, un miliardo di cose interessanti. E poi ognuno di loro chiama pure gli amici, un sacco di amici, e tutti quanti i loro amici sono esattamente come loro, infinitamente gentili, e conversano con te in modo infinitamente gentile ed interessante. E’ bello.

Forse i pensieri sono anche loro esseri sociali, un po’ come noi, esseri umani. Mi sembra che il Professore disse che è proprio così, da qualche parte.

Infatti, allo stesso modo fanno anche quelli non gentili. Quelli che sono, o diventano cattivi. Infatti non bisogna intrattenersi con quelli cattivi, perché anche loro chiamano i loro amici, e questi amici chiamano altri loro amici e così via - amici che sono tutti quanti come loro: cattivi. Cattivissimi.

Ho l’impressione che è in questo modo, che proprio a forza di chiacchierare con loro che i pensieri gentili sono diventati la maggioranza di quelli con cui parlo, da un po’ da queste parti. Perché chiamano i loro amici, ed i loro amici chiamano altri loro amici e così via, e tutti quanti loro sono così: gentili, infinitamente gentili.

Hm.

Forse funzionerà alla stessa maniera anche con quelli maleducati. Quelli che se li guardi scompaiono. Non li vedi, ma forse stanno già qui con te, e tu non lo sai. Ed anche loro chiamano i loro amici, che sono, anche loro, tutti quanti come loro: maleducati. E tu non lo sai. Non vedi nessuno. Devi guardarti proprio ben bene intorno, per poterli scorgere. Se sono buoni o cattivi è difficile da dire. Bisogna guardarli, per stabilirlo. Ma appena li guardi: puf. Scompaiono. Qualche volta si riesce a capire qualcosa. Qualche altra no.

Forse anche la loro presenza comincerà a diradarsi, un po’ come hanno fatto quelli cattivi. Ma questo è assai difficile da appurare, visto che non si vedono e non si sentono.

Se ricordo bene il Professore parlò anche del diradarsi, e addirittura delle scomparse. Bisogna rileggere le istruzioni. Quelle che stanno sparse in posti diversi.

Ho chiesto all’Euphorbia se i pensieri amici con cui ho chiacchierato fossero gli amici suoi.

“Non so, forse. I pensieri sono curiosi, è possibile che ti sono venuti a trovare solo per curiosità. Stavi così vicino. Ma noi piante parliamo di più in altri modi, tra di noi.”

“Erano simpatici, tanto simpatici.”

“Mi fa piacere.”

Si vede, che le fa piacere. Forse proprio gioia. Si vede.

Basta guardarla.

Si sta popolando, qui nella caverna. Sapevo che era piena di gente, quelle volte del sogno era sempre piena di gente. Ma queste altre volte che ci passavo non vidi mai nessuno.

Si vede che andavo troppo di fretta.

E’ risaputo che quando si va di fretta non si vede niente di quello che ci circonda. Menomale che non ho inciampato da qualche parte. Quando vado fretta, non mi accorgo neanche di un grosso ramo che sta di traverso sul mio cammino, proprio là, dove devo passare. Così, matematicamente, ci inciampo - inciampo proprio lì, su quel ramo. Come se fossi cieca, anche se non sono cieca. Sbattendo il naso per terra. Un po’ ridicolmente, anche. Come nelle candid-cam.

Per fortuna, in questa zona c’è la sabbia, per terra. Si fa per dire, per terra. Insomma c’è la sabbia, lì, in quei posti dove poggiamo i piedi.

Anche nelle gallerie c’è la sabbia, lì.

Le gallerie, poi. Vi è sempre stata la luce. Chissà da dove viene. Non vi è nessun’illuminazione artificiale. Almeno io non l’ho vista. La sabbia chiara per terra, di un giallo senape che fa un contrasto assai piacevole con quelle pareti chiare, di un bianco gesso che ricorda travertino, quello che si usa per delimitare i marciapiedi. Le pareti ripidissime, quasi ad angolo retto, solo un po’ di meno, almeno qui in basso. Salendo curvano un po’ verso interno e la loro fine si perde da qualche parte in alto, così lontano che non ci arrivo con lo sguardo, in una specie di ombra luminosa. Curioso anche questo. Ombra luminosa. Non è forse un ossimoro? Che ci sta a fare un ossimoro qui?

E’ tutto un po’ stupefacente.

Non sembrano nemmeno delle gallerie, vista la presenza della luce, ed il fatto che non se ne vede il soffitto, ma piuttosto dei canyon. Qui sotto dove passo il sentiero è bello largo, comodo per passarci anche in gruppo. Anche la sabbia per terra è compatta. Attutisce i passi. Ci cammino sopra quasi come su di un tappeto. Nell’insieme l’ambiente è molto accogliente e piacevole, almeno la sensazione che provo è quella. Come nella caverna. Cioè in quella piccola parte di lei che ho visto. Solo che in qualche modo qui è più spoglio. Bello, però. Senza nessun orpello né artificio. Di un eleganza discreta, essenziale.

Lasciavo perdere per seguire la voce. Perché mai, poi? Perché mai davo per scontato che la voce non mi avrebbe aspettato, se mi fossi fermata per esaminare quei luoghi così curiosi? Dove sta scritto che non mi avrebbe aspettato? Non ci ho neanche provato! Ogni volta che passavo approfittavo per guardare un po’ meglio intorno, ma sempre di sfuggita, sempre di fretta.

Insomma è da esplorare un po’ meglio anche lì. Capace che non sono proprio gallerie gallerie, ma dei strani canyon che là sotto assomigliano a delle gallerie.

La bambina sta seduta alla turca sulla sabbia, in riva al mare, nella caverna. Sta così, perché quello è il modo più comodo per essere seduti per terra. Con un dito disegna, un po’ di lato, sempre perché così è più comodo, una specie di cerchio che curva all’interno di sé stesso, rimpiccolendosi sempre di più. Ad un certo punto smette e passa con il palmo della mano sopra il disegno, rimettendo la sabbia come era prima. Più o meno, come era prima. Poi prova a fare un cerchio, sempre con il dito nella sabbia, intorno a sé stessa. Non ci riesce con una mano sola, deve contorcersi per riprendere il solco con l’altra mano alle sue spalle, ma una volta fatto il cerchio, o meglio, una specie di ellisse un po’ imperfetta si scoccia, si mette sulle ginocchia, e con i palmi delle mani spazza la sabbia per rimetterla come era prima. Più o meno come era prima. Poi si siede, non più alla turca, ma sporgendo una gamba per aria e comincia a muovere in cerchio il piede, tenendo la gamba dritta. Così, senza un motivo, solo perché è piacevole fare così. Insomma si muove, si muove in continuazione.

“Ma mi stai ascoltando?”

“Certo, ti ascolto, e mi muovo un pochino. Posso fare tutte e due insieme.”

La donna rimase interdetta, non piacevolmente. Infatti quando si è interdetti si è contrariati, e non è piacevole sentirsi contrariati.

La donna era così concentrata su quello che diceva che non si accorgeva nemmeno della posizione del suo corpo, un po’ scomoda. Con quella lunga veste che indossava non poteva stare seduta alla turca, che è più comodo, ma doveva essere appoggiata un po’ di lato, leggermente su di un fianco, con le gambe unite, anche quelle leggermente piegate, il torace ritto, appoggiando il suo peso su di una mano, anche quella messa un po’ di lato. Alla lunga la mano comincia a formicolare, dentro. Lei se ne accorse solo in quel momento - del fatto che le formicolava la mano, anzi il braccio tutto. Forse è per questo che le veniva da prendersela con la bambina. Non si accorse di questa possibilità.

“Più gentile. Con più amore.” Dissero la madre e il padre all’unisono, dolcemente.

Ma certo, i bambini si muovono sempre, tranne quando dormono. Anzi, anche quando dormono si muovono, solo un po’ meno.

E’ per questo che vengono loro tante idee, anche assai strampalate, che agli adulti non verrebbero in mente mai. Ma non è detto che sono tutte poi così strampalate. E sono sempre belle, viste da un certo punto di vista. A volte anche assai interessanti. Qualche volta persino efficaci, se messe in pratica.

Poi si rattristì. Effettivamente sarebbe dovuta essere più gentile, con la bambina. Più comprensione, più amore. Non avrebbe dovuto fare quella faccia lì. Dando per scontato che la bambina non la ascoltasse solo perché si muoveva, nel mentre lei, lei donna diceva cose così importanti. Dando altrettanto per scontato che la risposta della bambina fosse sfacciata. Infatti le è venuta una faccia. A lei - a donna.

La bambina non si accorse di niente. Ora muoveva in cerchio il piede dell’altra gamba guardando il mare, ma presto s’annoiò. “Dai, andiamo a farci un bagno, è così bello qui!” Non aspettò la risposta e cominciò a scuotere la mano libera della donna, cercando ti tirarla su.

La donna rise, s’alzò con insospettata agilità, nonostante quella veste estremamente comoda, ma a volte assai scomoda, ed esclamò:

“Allora vediamo chi si tuffa per prima!”

Corsero tenendosi per mano verso il mare, entrando rumorosamente nelle sue acque limpide che lambivano la sabbia con un sussurro lieve lieve, quasi impercettibile.